Parla il co-fondatore della Casa di Accoglienza di San Tommaso: «Ogni qualvolta che un ragazzo finisce il suo percorso c’è quella che noi chiamiamo graduazione. In quel momento diciamo a quella persona che il suo percorso è concluso, che può continuare sulle sue gambe. Ci salutiamo sempre con una stretta di mano e l’energia di quell’attimo mi ripaga di tutto, di tutta la fatica e di tutte le sconfitte»
Cominciano oggi le celebrazioni per i trent’anni di attività di Casa sulla Roccia. Trent’anni di solidarietà e di accoglienza, trent’anni di lotta per sostenere ed accompagnare le persone dalla dipendenza alla libertà. Trent’anni di miracoli che abbiamo voluto ripercorrere con un nostro caro amico, Mauro Aquino, tra i fondatori di questa splendida realtà.
Mauro, con che spirito vivi questo trentennale?
«A dirti la verità con una certa preoccupazione. Sembrerà strano ma è così, ma questa non è una festa. Ti confesso che ho vissuto con tormento il percorso di avvicinamento a questa data, all’inizio dell’anno scrissi sulla lavagnetta che sempre uso per appuntarmi appuntamenti o impegni, “trentennale”. Non sai quante volte ho cancellato quell’appunto per poi riscriverlo. Ma alla fine ha prevalso il dovere di ringraziare tutti coloro che hanno reso possibile questo cammino, tutti coloro che qui hanno operato, che qui sono stati accolti, tutti coloro che ci hanno consentito di vivere e crescere. Lo faremo con gioia, con grande gioia, ma anche, e veniamo al punto, con la preoccupazione di chi sa che di non potersi fermare, di chi comprende l’enormità delle sfide che lo attendono. Alla fatica del nostro quotidiano si aggiunge anche il fardello del futuro, di quel che ci aspetta. E non sarà facile tenere fede alle aspettative così come non è stato semplice arrivare sin qui».
In trent’anni avrai visto migliaia di volti, avrai incrociato migliaia di storie. Tante vittorie ma anche tante sconfitte. Le prime compensano le seconde?
«Ogni qualvolta che un ragazzo finisce il suo percorso c’è quella che noi chiamiamo graduazione. In quel momento diciamo a quella persona che il suo percorso è concluso, che può continuare sulle sue gambe. Ci salutiamo sempre con una stretta di mano e l’energia di quell’attimo mi ripaga di tutto, di tutta la fatica e di tutte le sconfitte».
Come è cambiato in questi trent’anni il disagio? Come è mutata la dipendenza?
«Trent’anni fa la stragrande maggioranza delle persone che incrociavamo sulla nostra aveva un’età che andava dai trenta ai trentacinque anni. Molto spesso ci trovavamo dinanzi a persone vittime di rigurgiti ideologici, caduti nella dipendenza per un rifiuto consapevole della società. All’epoca incrociare un ragazzo chinato su di una panchina era un pugno nell’occhio, oggi purtroppo le cose sono molto cambiate. Accogliere un quindicenne per noi è normalità, molto spesso si tratta di ragazzi che assumono una molteplicità di sostante, ma lo stesso discorso vale per gli ultra cinquantenni, vittime di una dipendenza ormai cronica. E poi sono mutate le dipendenze, come sai noi accogliamo anche dipendenti dal gioco d’azzardo o ragazzi vittime di disagi riconducibili a difficoltà in relazioni affettive. Si tratta di dipendenze che non presuppongono il ricorso ad una sostanza e questo, come è facile comprendere, richiama competenze nuove e diverse. Noi, questo il vero punto, non smettiamo mai di studiare, siamo in continua relazione con altre realtà, soprattutto del nord Italia dove certi fenomeni si verificano e si sviluppano prima».
Trenta anni fa entravo ed uscivo dalla parrocchia e quando uscivo andavo al Pci. Anche quelli erano agenti sociali fortissimi. Oggi la politica non c’è più. Non c’è più pensiero, non c’è più il sogno
Voi accogliete persone da tutta la Campania e anche da fuori, tuttavia la sede di Casa sulla Roccia è da sempre a San Tommaso, nel cuore del quartiere più popolare di Avellino. Una città che non vive certo una condizione felice una città che ha visto e continua a vedere tanti suoi figli togliersi la vita. Perché? Dov’è la radice del male?
«Le cause sono molteplici ma al fondo c’è un dato ineludibile: le agenzie sociali di un tempo non ci sono più, trenta o quaranta anni fa le parrocchie erano punti di aggregazione, veri luoghi di comunità. Oggi non c’è nulla se non il vuoto. Molto spesso, davvero molto spesso, mi capita di incrociare persone, genitori, che mi chiedono la cortesia di ospitare i loro figli per un paio di settimane e la ragione è sempre la stessa: l’incapacità di trasferire il rispetto delle regole. Le famiglie sono sole, a chi si rivolge un genitore preoccupato per il proprio figlio? I servizi sociali dove sono? Certo, la crisi è stata devastante e ancora non è passata, soldi non ce ne sono, ma è pur vero che ci sono priorità e priorità. La differenza la fanno sempre gli uomini, talvolta ti imbatti in persone responsabili e sensibili che comprendono il valore della loro funzione, altre volte con burocrati freddi e distaccati, altre volte con chi persegue solo le proprie ambizioni o i propri interessi».
Ai ragazzi insegniamo la consapevolezza dei limiti e delle potenzialità, insegniamo loro ad accettarsi, a comprendere che ognuno di noi è unico, nei suoi talenti e nelle sue debolezze
Trent’anni fa c’erano le parrocchie ma anche in partiti…
«Assolutamente, io entravo ed uscivo dalla parrocchia e quando uscivo andavo al Pci. Anche quelli erano agenti sociali fortissimi, ma oggi, purtroppo, la politica non c’è più. Non c’è più pensiero, non c’è più il sogno».
Ecco Mauro, proprio a proposito di politica, di questi tempi va molto di moda la retorica della comunità da ricostruire e della coesione sociale da recuperare. Casa sulla Roccia è in primo luogo una comunità, una comunità che ha attraversato i decenni rigenerandosi ma rimanendo sempre tale. Cos’è che fa di una comunità una comunità?
«Proprio il sogno, lo stesso sogno che la politica non è più in grado di regalare. La nostra è una comunità utopistica, noi non facciamo altro che accompagnare i nostri ragazzi nel percorso faticoso che conduce alla riconquista del sogno, di una utopia reale che si risolve nella vita vissuta nella certezza di sapere da che parte stare, la parte del rispetto della propria persona e dunque degli altri, dalla parte di chi vuole continuare a portare avanti i valori in cui crede. Anche per questo ad un tratto c’è il taglio netto, il percorso si ferma. Perché la dipendenza non possiamo essere noi, il contatto e i rapporti con i nostri ragazzi restano sempre vivi, ma devono camminare con le loro gambe sul percorso della vita».
Trent’anni fa incrociavamo persone che andavano dai trenta ai trentacinque anni. Oggi, accogliere un quindicenne per noi è normalità, molto spesso si tratta di ragazzi che assumono una molteplicità di sostante
Oggi a Casa sulla Roccia ci sono anche tanti ragazzi irpini e avellinesi, è sempre stato cosi?
«Assolutamente no, all’inizio erano davvero pochissimi. Il peso della vergogna, a metà anni ottanta, era tale da indurre le famiglie a rivolgersi a realtà fuori provincia. Ora le cose sono cambiate, un 25 per cento dei nostri ospiti è irpino o avellinese».
C’è un minimo comun denominatore tra tutti gli ospiti accolti in questi anni?
«Certamente non è, come pure troppo spesso si può pensare, il livello culturale. Noi accogliamo persone che non hanno la quinta elementare e persone con la laurea appesa in camera. Il vero minimo comune denominatore è la difficoltà a relazionarsi con il mondo esterno e l’illusione di trovare nella sostanza la sicurezza, lo strumento per sentirsi uguali agli altri. Noi insegniamo soprattutto questo, insegniamo la consapevolezza dei limiti e delle potenzialità, insegniamo loro ad accettarsi, a comprendere che ognuno di noi è unico, nei suoi talenti e nelle sue debolezze».
Genitori mi chiedono la cortesia di ospitare i loro figli per un paio di settimane e la ragione è l’incapacità di trasferire il rispetto delle regole. Le famiglie sono sole e i servizi sociali dove sono?
Una cosa che va detta, Casa sulla Roccia è un’associazione di volontariato. Tu hai donato la tua vita a questa realtà, da trent’anni vivi quotidianamente questa avventura conciliandola con il lavoro. Guardandoti indietro non avverti un minimo di stanchezza?
«No, la fatica non la sento. Quello che raccogli è talmente immenso che non la sento. Io dico sempre ai miei ragazzi che ognuno di noi ha un debito con Casa sulla Roccia, sia che ci sei passato per un tuo disagio, sia che hai operato su quel disagio. Io devo moltissimo a Casa sulla Roccia, perché ogni giorno mi ha fatto sentire utile, ha dato un senso alla mia vita».
Grazie Mauro, grazie per tutto quello che fate
«A te».
FONTE : http://www.orticalab.it/Chi-non-sogna-muore-La-nostra-e