Il tormento di non avere parole. Quelle che qualcuno ha trovato a “La Casa sulla Roccia”

Una cassapanca.

È stata sul palco per tutto il tempo dello spettacolo, venerdì sera al “Gesualdo” per l’annuale rappresentazione di gratitudine della “Casa sulla Roccia” nei confronti delle comunità. Un ‘grazie’ a chi è ospitato nella struttura (ovvero la comunità di recupero) e un ‘grazie’ alla comunità ‘esterna’ che supporta e coadiuva fattivamente, come l’Associazione “Fenestrelle” di Monteforte Irpino e i tanti volontari.

Mi sto avvicinando pian piano alla realtà della “Casa sulla Roccia”. M’incuriosisce, m’interessa dal punto di vista psico-comportamentale, voglio capire, voglio conoscere meglio e di più. A volte sento la necessità di trovarmi in altri sistemi relazionali, perché il confronto aiuta, rinforza, appaga. L’intuito si raffina e la creatività nella soluzione dei problemi lievita.

Nata trent’anni fa, per arginare l’onda lunga e letale del boom di eroina degli anni precedenti, ora l’Associazione aiuta il recupero da tutte le ‘dipendenze’.

Con il tempo si è estesa e dopo i primi lustri di ‘chiusura’ – quasi una sorta di luogo per nascondersi – da altrettanti lustri si rivolge sempre di più alla comunità che circonda i luoghi della loro attività.

Da quello che ho visto e sentito venerdì sera, dal palco — dopo lo spettacolo durante i saluti — ho rafforzato il convincimento che di case e di rocce (come punti di appiglio) ce n’è sempre più bisogno.
Come c’è sempre più bisogno di parole per raccontare il disagio, che non è più limitato alle sostanze, bensì all’alienazione dal dialogo con gli altri.

Infatti, lo spettacolo (per come l’ho letto io) girava intorno al concetto di ricordi da narrare, per riannodare il filo della memoria al presente, lungo le generazioni. La cassapanca è la memoria collettiva che deve essere condivisa. Per questo – suppongo – dopo lo spettacolo alcuni ospiti delle strutture (c’è anche “Villa Dora” a Prata) hanno letto alcuni loro pensieri, tra lacrime e voci rotte.

No, lettori miei, non è stata la festa del buonismo e della solidarietà a favor di retorica. Lì, al Gesualdo, venerdì sera, il dolore circondava tutti. Il dolore di chi non ha saputo capire in tempo il disagio, il dolore di coloro i quali non hanno mai imparato le parole per raccontarlo ed hanno lasciato che scelte sbagliate e tragiche parlassero per il loro tormento.

Eh, sì, perché non sempre la scelta sbagliata è il problema, bensì diventa problema e struggimento quello che non si sa (o non si è imparato a) dire. Spesso, anzi quasi sempre, il tormento è non saper comunicare, non avere le parole per dirlo. Agli altri, ma forse soprattutto a se stessi.

La prevenzione passerebbe per un’intensa attività didattica sulla grammatica dei sentimenti, sul glossario delle emozioni. La rinascita avviene imparando nuove parole, aprendo nuovi libri di significato. La porta chiusa si apre con nuove azioni e nuovi comportamenti.

In sala, venerdì sera — tranne l’equipe della Casa sulla Roccia — non conoscevo nessuno. Nessun volto mi era noto, tuttavia sono riuscita leggere le storie famigliari che scavavano solchi sui volti e affondavano gli sguardi degli spettatori; ho percepito la speranza che ognuno coltiva per i propri figli e fratelli, i quali sul palco hanno provato a raccontare il meglio di loro stessi, cantando, saltando, recitando.
Inutile dire che le scene corali sono state le più mobilitanti per gli animi.

Ho apprezzato moltissimo – a fine spettacolo – la coreografia in cui si mostravano al pubblico oggetti di uso comune: un bacile, una tazza, un vinile, una fotocamera.

Oggetti del ricordo, vero, ma anche punteggiatura della nostra quotidianità, quella in cui dobbiamo cercare conforto, modificandola se ci ferisce, piuttosto che scappare. Perché non sempre sappiamo dove andare, come ci ha detto uno dei ragazzi, ma scappiamo purché sia, convinti che sia il viaggio a farci crescere. Non a tutti tocca la bussola giusta, non tutti conoscono le parole per orientarsi.

Qualcuno, per fortuna, incontra una comunità come “La Casa sulla Roccia”.

di Marika Borrelli – Orticala 26/048215

 

Foto di Antonio Bergamino